Overdose. Una parola che tutti conosciamo, che tutti usiamo. Spesso, forse la maggior parte delle volte, in riferimento a un sovradosaggio di sostanze stupefacenti e psicotrope. Sostanze che possono portare alla morte.
Overdose è una parola estremamente giornalistica. L’avrai letta, sicuramente, su pagine di cronaca. Periodicamente sui titoli delle testate giornalistiche, quando si tratta di casi-simbolo che entrano nelle case di tutti gli italiani.
Eppure, l’overdose è – tecnicamente – una parola neutra. Significa dose eccessiva, più o meno semplicemente. Alcuni, molto di recente, l’hanno usata anche in riferimento al bombardamento mediatico causato dal covid. Un’overdose di informazione.
Forse ti stupirò. Ma tutte le overdose possono uccidere. E qualcuna, certo, è più letale di altre.
Nel giugno del 2018, l’OMS ha inserito la ludopatia nelle malattia psicogene. La dipendenza dai videogiochi si trova, oggi, nella lista della International Classification of Diseases. La lista delle malattie formalmente riconosciute come tali dalla comunità scientifica.
L’overdose da videogame può uccidere. E la tristissima, tragica, storia di Pavel Matveev lo testimonia.
Sicuramente avrai sentito parlare di Blu Whale, la terribile balena blu. Una sfida online, che a differenze delle balene vere, ha ucciso molti esseri umani. Soprattutto bambini.
Ma per dimostrarti che l’overdose da videogame è un fatto serio e pericoloso, non ti racconterò la storia di Pavel e della sua famiglia, sconvolta dalla sua morte. Voglio parlarti di qualcuno che è sopravvissuto. Di qualcuno che è guarito.
Per questo ti racconto la storia di Simone.
Simone ha 17 anni. Ama i giochi di strategia in tempo reale. Gli RTS. Una sigla che tutti gli appassionati di videogame conoscono bene. Simone è uno di quelli. Gioca continuamente. Dice di averli consumati quasi tutti. Forse tutti.
Poi arriva il principe dei giochi. E Simone si innamora.
Parlo di WoW. World of Warcraft. Un gioco che avrebbe completamente rivoluzionato il suo approccio al gaming.
World of Warcraft è un videogioco MMORPG d’azione del 2004, sviluppato da Blizzard Entertainment e pubblicato da Vivendi Universal per Microsoft Windows e MacOS. Si può giocare soltanto online, previa pagamento di un canone mensile.
Per quegli anni, Wow è veramente una rivoluzione.
Il primo gioco che, attraverso il sistema degli avatar, ti porta direttamente dentro un sistema di realtà aumentata. Dentro World of Warcraft, le sagome che incontri sono reali. Si tratta sempre di avatar controllati da qualcuno che, in quel momento, sta giocando sulla piattaforma.
Non sono pupazzi controllati da computer. Con gli avatar, si può parlare. Si può scherzare. Si può ridere. Esattamente come se fossero veri incontri sociali.
Simone perde il controllo. Si dimentica della realtà. Inizia a vivere dentro il mondo favoloso e mirabolante di World of Warcraft. 7 o 8 ore al giorno. Senza tregua.
Dici che si tratta già di un’overdose? Sicuramente ci siamo vicini.
Il sistema della realtà aumentata, del tipo WoW, sembra assicurarsi il controllo del gamer. Ti piega, attraverso delle istanze semplici, alle regole del gioco in modo da farti diventare pericolosamente dipendente. Ti porta sempre più dentro al gioco.
Come ci riesce? In parte, l’abbiamo già detto. WoW ti permette di confrontare continuamente il tuo status, il tuo livello potremmo dire con una parola d’altri tempi, con quelli di altri giocatori, tutti reali e impersonati da avatar simili al tuo.
Non è solo il confronto a tenerti incollato allo schermo del tuo pc.
WoW, infatti, premia continuamente i tuoi risultati positivi attraverso un sistema di causa-effetto che semplifica la realtà. La rende oggettiva. Ma soprattutto la rende – pericolosamente – gratificante.
World of Warcraft, e i giochi che seguono questa impostazione, è poi un endless game. Un gioco che non ha alcuna fine. In questo modo, l’esperienza di gioco non può essere mai completata del tutto. Anche se concludi, insomma, non hai concluso.
Perché si rende immediatamente disponibile una nuova versione del gioco. Una espansione, per usare un termine caro ai gamer.
Ma torniamo a Simone che, intanto, ha compiuto 18 anni. E la sua vita è ormai ossessivamente incentrata sul gioco.
La scuola è finita e Simone sa che dovrà iniziare a frequentare l’università. Quel mondo nuovo lo spaventa. Non perché teme il confronto sociale, ma perché ha paura che la sua evidente dipendenza dai videogame possa inficiare pesantemente sui suoi risultati accademici.
Simone è sopravvissuto alla sua overdose. Ha risolto il suo problema. Ci è riuscito grazie ai suoi genitori, al sistema scolastico, ma soprattutto grazie alle aspettative che nutriva verso sé stesso. Simone si è laureato. Ha vinto la sua battaglia.
Ma quelli che non ci riescono?
Si chiamano hikikomori. Un termine giapponese che si riferisce a chi sceglie, più o meno consapevolmente, di ritirarsi dalla vita sociale in presenza (quella reale, quella fisica) per cercare un livello pesante, estremo, di isolamento. Spesso, forse sempre, attraverso il gioco online.
Attraverso la costruzione di una realtà aumentata che ti illude di vivere in un universo diverso. Dove la pressione è sostenibile. Dove tu sei più bello, più bravo, più forte.
In Giappone, è un fenomeno ricorrente. La società del Sol Levante, in effetti, è caratterizzata da una forte protettività materna, da una pressione, che è molto spesso insostenibile, verso l’auto-realizzazione, verso il successo personale.
In Italia, il fenomeno esiste. Ed è in pericoloso aumento. Si stima che un adolescente su 200 sia un hikikomori e soffra, inequivocabilmente, di dipendenza da internet.
La differenza, e questo forse è l’aspetto più terrificante, con il Giappone, è che in Italia non si tratta quasi mai di una reclusione volontaria dovuta all’incapacità dell’individuo di confrontarsi con la società.
Al contrario, diventa una conseguenza quasi naturale dell’abuso.
Poi, dall’abuso alla dipendenza il passo è breve.
Dalla dipendenza all’overdose può trascorrere più tempo, ma è questa la golden hour in cui dobbiamo lottare per evitare che accada.
La società ha il compito di impedire che una storia come quella di Pavel Matveev possa ripetersi o, addirittura, trasformarsi in un fenomeno frequente.
Pavel era una bambino. Aveva 15 anni. Dipendeva dai videogame e, dopo una sconfitta virtuale, ha perso il controllo. È uscito in giardino e si è tagliato la testa con una motosega.
Parlare di Pavel è necessario. Perché il compito della società è prima di tutto compito dei genitori e, quindi, di ognuno di noi. Di tutti quelli che abbiano influenza sugli altri.
Anche parlare di Simone è necessario. Perché un ragazzo che cominci a dipendere dai videogame, sia motivato a uscire dal tunnel. A porre un freno, magari una fine, a un endless game. A un gioco senza fine.
Come uscirne? Come guarire?
Come sopravvivere ad una overdose da videogame? Il primo passo, senza dubbio, è vigilare sulle nostre abitudini.
Giocare ai videogiochi non è di per sé controproducente, non è di certo un comportamente antisociale. Molti videogiochi sono veri e propri capolavori della grafica.
E all’architettura videoludica lavoravano architetti, designer, professionisti del settore. Insomma, artisti.
Giochi come Back to Bed, Silent Hill o Dishonored, ma anche Assassin’s Creed o Ico sono vere e proprie opere d’arte. Ico, addirittura, ti porta dentro a un quadro di De Chirico per salvare una principessa. Insomma, non proprio roba da nerd e basta.
Entrare dentro questo mondo metafisico può essere esperienza estetica, anche catartica, o semplicemente un divertimento.
Giocare a Fifa non ti rende un malato mentale. E nemmeno l’abuso è sinonimo di dipendenza. Anche se può esserlo.
La dipendenza è un fenomeno pericoloso. Qualcosa che non viene annunciato. Che arriva e basta. Negarla è facile. Un po’ come caderci. E il senso della misura è, in effetti, estremamente soggettivo.
Quello che io posso ritenere abuso, per te probabilmente è prassi.
E finché un gioco non oscura la tua realtà fisica o non inficia negativamente sulla tua vita, finché non diventa effettivamente l’unica possibile realtà, o quella preferita, non possiamo parlare di dipendenza o di overdose.
Quello che cerchiamo – tutti, nessuno escluso – è il famigerato senso della vita.
È frequente che i videogame regalino un senso a chi lo sto cercando. Al contrario, la vita reale, quella quotidiana, è in fondo priva di qualsiasi senso e il gioco ti offre un contratto semplice. Probabilmente articolato in fasi infinitamente complesse. Ma chiaro, limpido da un punto di vista sequenziale.
Se vuoi progredire, basta fare questo.
Insomma, per chiunque sarebbe più semplice vivere in un gioco, in una realtà aumentata, piuttosto che nella volgare realtà. Dove molte volte ti sforzi inutilmente, senza riuscire a ottenere alcun risultato.
Forse lo sport ti dà la possibilità di ottenere risultati, ma è difficile perché devi usare il tuo corpo. L’allenamento può non bastare.
Occorre fare sacrifici, rinunce. Occorre dedicarsi. Occorre sacrificare la propria alimentazione per adottare regimi alimentari spesso insostenibili.
Perché non rivolgersi allora, a qualcosa di virtuale?
Sarò brutale, forse. Ma il senso che cerchiamo, i videogame non possono darcelo.
Quando ti sembra che il gioco cominci a darti il senso che nella realtà manca, è allora che dovresti cominciare a preoccuparti.
Quando l’esperienza “grafica” finisce; quando l’interesse per la bellezza o semplicemente l’idea di riempire il tempo si esaurisce a favore di un bisogno, spasmodico, di vivere dentro quella realtà; in quel momento smetti.
Così salverai Pavel. Così sarai come Simone.